Oggi vi propongo una leggenda canese che mi era del tutto sconosciuta. Ho nel tempo risentito i nomi dei due protagonisti ma delle loro fantastiche vicissitudini ne ero completamente all’oscuro. Grazie a Lauro Leporini possiamo inserire una nuova leggenda raccontata con enfasi fiabesca e dettagliata sin nei minimi particolari (storici e non). Un vivissimo ringraziamento a Lauro è quindi il minimo che si possa fare. Anche questa leggenda finisce nella pagina a loro dedicata che potrete trovare nel menù principale o cliccando qui.
Per le note presenti nella leggenda, sempre a cura di Lauro Leporini, si rimanda alla versione integrale che potete trovare a questa pagina: NOTE
Leggenda popolare canese:
IL GRAN CANE E PIETRO PINCA
Fedelmente redatta da Niccodemo Simonelli (1928) sui ricordi dei racconti appresi in infanzia da sua nonna Francesca Falconi (1868-1953). Revisione con aggiunte letterarie e ricostruzione storica di Lauro Leporini.
Erano tempi di rivalità fra signori vicini, di prepotenze e nefandezze di ogni genere. Il diritto di banno lasciava ai signori locali l’arbitrario uso della giustizia e il potere di riscuotere salate tasse verso i loro sudditi; non meno pesante era il periodico esercizio, obbligatorio e gratuito delle cosiddette angherie da parte dei coloni nei possedimenti privati dei loro signori.
Molti secoli fa nella nostra zona spadroneggiavano: il Gran Cane, paternalistico feudatario [1] del vasto, boscoso ed aspro comprensorio di Cana, che pur pretendendo cieca obbedienza dai suoi servi e pur usando all’occorrenza la frusta, come all’epoca era di uso comune, non osava mai oltrepassare certi limiti e Pietro Pinca, detto “Pinco”, signore del piccolo, fertile e pianeggiante comprensorio del Castagnolo [2] che quanto a soprusi e cupidigia non venne mai sorpassato da nessun altro signore dei comprensori limitrofi [3] .
Una parte del territorio di Cana era confinante con quello del Castagnolo ed i litigi per i danni arrecati ad alcune colture canesi, poste sulle fertili pianure a sinistra del torrente Trasubbie [4], dovuti agli sconfinamenti del bestiame brado del Pinco, erano piuttosto frequenti, come frequenti erano gli altri motivi di rivalità che aggiunti al carattere prepotente del Pinco determinavano un continuo stato di tensione. Al Gran Cane, inoltre, non era ancora passata l’arrabbiatura presa nell’ottobre dell’anno prima, durante l’ultima festa da egli indetta in Cana presso il sottostante Campo della Corte [5] , con giochi equestri e relativo banchetto. Nell’affollata festa nobiliare, alla quale parteciparono tutti gli invitati, cioè gli altri vassalli del magnifico conte palatino, signori dei territori limitrofi, molti dei quali congiunti del Gran Cane, riuscì a passare ai distratti controlli delle indaffarate guardie canesi l’indesiderato Pinco, il quale una volta intrufolatosi, forse da una porzione meno fitta dell’ampia ed incolta siepe di delimitazione, dopo aver bevuto qualche bicchiere di buon vino novello aromatizzato, appositamente preparato per l’occasione, barcollante e paonazzo in volto, prima di essere scoperto, preso a calci e poi brutalmente cacciato dalle guardie, si mise ad importunare alcune madame ed a fare lo strafottente con alcuni messeri.
Un giorno il Gran Cane, stufo, decise di porre fine a tutto questo. A tale scopo, ordinò ai suoi massari di comportarsi nel seguente modo in caso di nuovi sconfinamenti: prelevare il bestiame, chiuderlo nelle stalle ed avvisare Pinco di ciò ed intimargli di sborsare 100 fiorini d’oro [6] come penale per rientrare in possesso del bestiame. Se i massari non avessero agito così sarebbero incorsi nella punizione di 30 frustate ciascuno. Lo sconfinamento avvenne nuovamente ed i contadini agirono come pattuito.
Pinco, con l’arroganza e la prepotenza che lo contraddistinguevano, fece sapere al feudatario canese, attraverso un messaggio inviato ai massari dello stesso, che non solo non avrebbe pagato la penale ma che avrebbe tenuto prigioniero il massaro, latore del messaggio, fino a quando non gli fosse stato restituito il suo bestiame. Il Gran Cane, consapevole che il Pinca non avrebbe potuto competere con lui con la forza, fece sellare, imbrigliare e bardare il suo cavallo dal fido servo-scudiero, si infilò le brache di cuoio ed il giaccone di lana, si infilò gli stivaloni di cuoio, indossò la sua vecchia cotta di maglia, quindi la bianca tunica di cotone con lo stemma di famiglia cucito sul petto, si strinse ai fianchi la cinghia con il pugnale, indossò le manopole in cuoio e s’infilò il cappello di ferro in testa. Inoltre, consegnò allo scudiero, che sistemò sul proprio mulo, la cinghia con lo scalfito spadone, l’ammaccato elmo e le malconce armi: lo scudo, la mazza e la balestra con i relativi bolzoni. Partì da Cana una fresca e profumata mattina di primavera con la sua ridotta compagnia di massari-masnadieri, chi a piedi chi con cavalcature anche di fortuna, “corazzati” alla meglio ma ben forniti delle seguenti rabberciate armi: lance, falcioni, asce, fionde, scudi e pavesi di vimini. Gli “armigeri” furono fatti appostare sul lato sinistro del torrente Trasubbie e gli fu ordinato di accumulare subito delle pietre per l’eventuale sassaiola. Il Gran Cane fece quindi avvisare il Pinco, tramite due suoi soldati a cavallo, che egli era risoluto ad intraprendere un’ardita cavalcata di rappresaglia nelle sue terre se non avesse immediatamente rilasciato il massaro che teneva prigioniero e pagato la penale. Pinco dovette fare buon viso a cattiva sorte, dominando la rabbia che lo consumava a beneficio di un ben congegnato progetto di vendetta per lo smacco subito. Egli si decise, quindi, a liberare il massaro ed a pagare la penale richiesta, poi si recò subito alle Trasubbie dal Gran Cane e con finta umiltà accordò con esso il giorno in cui poter desinare insieme presso il Castagnolo per poter parlare dei loro problemi ed eliminare le controversie che li dividevano, promettendogli, infine, che d’ora in poi si sarebbe comportato correttamente anche nei confronti di tutti i signori del vicinato. Il Gran Cane accettò l’invito.
Passata una settimana, giunto il giorno prestabilito, una piovigginosa ma mite mattina d’aprile, insieme al suo fedele gastaldo di corte e tutto il suo seguito armato, il Gran Cane partì da Cana per recarsi al Castagnolo. Questa volta però si era corazzato più alla leggera, infatti sotto il nero mantello con il cappuccio sotto il cappello di ferro, aveva il pesante coietto in cuoio a protezione del busto. Giunti alle Trasubbie, non fidandosi delle promesse del Pinco dette disposizioni alla masnada di accamparsi lì e di entrare in azione ed invadere con la forza i possedimenti del rivale se alla prestabilita ora non avesse fatto ritorno.
Il Gran Cane, il gastaldo e lo scudiero, giunti che furono nelle vicinanze della collinetta calcarea sulla quale si erge l’arcigno e tozzo torrione brunastro del Castagnolo, dimora del Pinca, vennero intercettati dai rudi membri del corpo di guardia dello stesso, che una volta identificati li fecero entrare nel cortile murato del fortilizio. Gli ospiti furono ben accolti dai servi del Pinco, i quali provvidero subito ad asciugarli ed a sistemare le loro cavalcature. Le armi e le cose del Gran Cane furono gelosamente custodite dentro la stalla, all’interno del cortile, dallo scudiero.
Gli ospiti furono poi introdotti nel buio ed umido piano terra del torrione ma dopo un po il Gran Cane non vedendo Pietro ad accoglierlo, pensando ad un paventoso tranello, si mosse insieme al gastaldo prendendo tutte le precauzioni possibili onde poter reagire ad ogni evenienza. All’improvviso si fece avanti la scorbutica moglie del Pinco che fra sonori ceffoni ed imprecazioni “elargite” ai suoi scalmanati piccoli figli che gli erano accorsi appresso, informò gli ospiti in modo assai veloce quanto villano, sull’assenza di suo marito, gravemente ammalato fin dal primo mattino. Il Gran Cane a questo punto volle maggiori spiegazioni e quindi fu introdotto nel terzo piano del torrione presso la camera del padrone di casa. Il Pinco, disteso sul suo letto a baldacchino, dentro alle coperte, si scusò per l’inconveniente arrecato ai suoi ospiti e li pregò di passare nella sala da pranzo per consumare da soli il pasto che gli era già stato preparato, perché lui non poteva partecipare, i forti dolori di stomaco che da qualche giorni lo affliggevano gli consigliavano di digiunare e gli impedivano, addirittura, di muoversi dal letto. Il feudatario di Cana avrebbe pensato ancora una volta ad uno dei suoi tiri mancini se non avesse notato il vistoso stato di sofferenza del Pinco e presi accordi per un successivo incontro fu fatto scendere, insieme al suo gastaldo, nella sala da pranzo collocata al primo piano. Il Gran Cane mangiò di buon gusto le prelibate vivande che gli furono preparate. Naturalmente dopo che il gastaldo ebbe assaggiato tutte le portate.
Durante il pranzo, il Gran Cane, notò che uno dei servi del Pinco era particolarmente gentile con lui e per questo, al momento di salire in sella per tornare a Cana, volle donargli una moneta d’oro. Il servitore nel ringraziarlo del dono gli mormorò sottovoce, per non essere udito dagli altri, che appena gli era possibile di nascosto si sarebbe recato a Cana per parlargli di cose molto importanti.
Dopo alcuni giorni, una calda mattina, il servitore di Pietro Pinca si presentò presso la vigilatissima porta del borgo [7] del castello di Cana chiedendo alle guardie di poter parlare con il Gran Cane. Passato il dovuto tempo per l’identificazione fu fatto entrare. Scortato, oltrepassò l’alto torrione [8] e varcò la soprastante porta della robusta cinta muraria [9] dell’erta fortezza di Cana. Entrato nel piccolo ma laborioso castello fu condotto presso la vetta e quindi introdotto nell’antiporta del gagliardo e compatto cassero biancastro [10]. Dopo i convenevoli inchini al signore ed alla sua garbata consorte, vistosamente in dolce attesa e visibilmente preoccupata, il servo confessò al feudatario che Pinco era un malvagio inguaribile e che nulla di sincero ed amichevole ci si doveva attendere da lui. Aveva mentito anche il giorno di quel pranzo perché non di mal di pancia si trattava ma di una grave ferita subita in uno scontro a due con il signore del Cotone il quale aveva violentemente reagito alla proposta del Pinco di schierarsi con lui nella lotta contro il potere e la rispettabilità del Gran Cane, con il quale, invece, era legato da antica e profonda amicizia.
Spiegò poi che il nuovo invito al Castagnolo, che presto gli sarebbe arrivato, avrebbe nascosto i malvagi piani di rivincita di Pinco, il cui scopo era quello di gettare il Gran Cane nell’ormai famoso trabocchetto, [11] ove ruote con coltelli e punte acuminate lo avrebbero ucciso e fatto sparire così come era avvenuto per gli altri signori che si erano opposti ai suoi torbidi disegni. Il trabocchetto, spiegò che si trovava sotto la sedia posta davanti allo scrittoio, nella stanza privata del Pinco, accanto alla sala da pranzo. Il malvagio, seduto dall’altro lato, sollevando una leva nascosta dietro una cassa di legno, poteva azionare il congegno, ideato e costruito da lui stesso, facendo così aprire una botola, coperta da un drappo ornamentale di lana rossa, posto sul pavimento sotto la sedia dell’ospite, facendo quindi cadere nel vuoto lo sventurato di turno.
Dopo alcuni giorni arrivò il nuovo invito. Giunto il giorno prefissato dal Pinco, una calda ed assolata mattina di maggio, il Gran Cane, lasciata ancora una volta la sua “armata” alle Trasubbie, si presentò per l’ora di pranzo, questa volta solamente con lo scudiero, presso il fortilizio di Pietro Pinca. Appena terminati i rituali saluti fu servito il lauto pasto nell’apposita sala. Zuppa di cereali e legumi coltivati nelle assolate pianure circostanti, condite con il delizioso e finissimo olio del Pinco, saporiti arrosti di carne di maiale, capra e vitello allevati nei pascoli delle boscose colline del Castagnolo, confinanti con i relativi pascoli collinari di Cana e Stribugliano, per contorno una deliziosa crema di asparagi selvatici, freschi di stagione, raccolti nei dintorni, una pagnotta di prelibato pane bianco, una squisita crostata di fichi appassiti provenienti dai vecchi ma rigogliosi alberi nati ai bordi del torrente Melacciole [12] , fatta con farina, uova d’oca e miele, tutto proveniente dalla riserva rurale privata del Pinco, accompagnati dai corposi quanto deliziosi vini, rosso e bianco, provenienti dalle assolate vigne dello stesso, rinvigorirono le affaticate membra dei due maneschi signori.
Terminato il luculliano pranzo, dopo essersi asciugati le rispettive incolte barbe castane, la soporifera pausa post-pranzo, consumata volentieri da entrambe seduti su un’insicura panca addossata ad un lato della scarna sala, fu accompagnata dalle “gravi note” dei malcelati sfoghi delle reciproche pressanti arie intestinali, interrotte soltanto dai loro singhiozzi e dalle brevi frasi del dialogo di circostanza, volto sulle relative enfiate capacità venatorie.
Circa un’ora dopo, Pinco, invitò l’ospite a seguirlo nella sua stanza privata, onde poter parlare indisturbati dei loro rapporti di vicinato. Era la stanza del trabocchetto, o come diceva egli stesso: “…La stanza della morte dalla quale non si esce né vivi né morti, ma si passa direttamente, anima e corpo, nel profondo dell’inferno!…”.
Il Gran Cane, che conosceva nei particolari quella stanza, spostò la sedia presso un altro lato dello scrittoio e si sedette per iniziare “l’amichevole” conversazione della quale già conosceva, in modo sommario, l’epilogo. Pinco, stupito del gesto, chiese al Gran Cane il motivo, sostenendo che riteneva preferibile avere di fronte e non al lato le persone con le quali doveva colloquiare. L’ospite, con una punta di ironia rispose che voleva ben sentire le sue parole e ben vedere le sue mosse, per questo gli sembrava che dove adesso si trovava fosse la migliore posizione. Il Cattivo ebbe allora la percezione che il Gran Cane conoscesse i misteri di quella stanza, cosa che avrebbe fatto fallire il suo piano criminale. Pinco, a questo punto, cominciò a pensare di dover spingere l’interlocutore nel trabocchetto con la forza, seppur la mole, l’altezza e di conseguenza la forza del Gran Cane, superiori alle sue, non dessero garanzie per la buona riuscita del gesto. Il Malvagio cominciò ad innervosirsi e a dire frasi senza senso, sicché, quando il Gran Cane gli annunciò che anch’egli era al corrente dei tanti crimini commessi in quella stanza andò fuori di senno, azionò immediatamente la leva del trabocchetto e dischiusasi la botola afferrò l’avversario per un braccio e violentemente ve lo protese.
La mossa però non ebbe il risultato sperato, l’aitante Gran Cane non fu minimamente spostato da dove si trovava, gli fu stracciata solamente la manica della camicia che portava sotto il coietto e con quella in mano, per effetto della forza impressa dal movimento, fu Pinco a cadere nel trabocchetto, dando nuovo vigore all’evangelica frase: “…Chi di spada ferisce di spada perisce…”.